Chiara Lera

Chiara Lera

Opere maneggevoli e di facile utilizzo, fabbricate senza rispetto ma con tanto amore. Chiara Lera nasce a Lucca nel 1985 dove vive e lavora. Si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara in seguito ad un percorso di studi nell’ambito della grafica e del design, intrapreso a Barcellona, Valencia e Firenze. Ha lavorato come docente di web design presso l’Accademia di Belle Arti di Perugia. Insegna discipline grafiche e pittoriche al Liceo Artistico Multimediale di Viareggio.

Cosa ti spinge a creare?

Lo senti questo male dentro? Questa nebbia che non se ne va finché non ti siedi, accendi la luce ed inizi a tracciare dei segni sul foglio? Poi non c’è niente di chiaro ma tutto risplende e sai che così è ok.

Dipingere è come respirare, è indispensabile, se non lo faccio mi sento vuota come un guscio di crisalide. Dipingere non è terapia, è sostanza. Mentre lavoro sento che qualcosa va al suo posto e che non potrebbe essere che così. È una danza, un rito. Mi muovo in uno stato di coscienza alterato e al tempo stesso lucidissimo, in cui lascio scorrere qualcosa che mi attraversa, un’energia più grande di me a cui faccio da tramite. Ci vuole tanta umiltà, è inutile pretendere di avere controllo, perché nel momento in cui ti illudi di essere padrone tutto ti sfugge e ti manda in crisi. L’arte è una piccola fiamma da custodire e condividere. Perché non sono solo io a trovarci qualcosa di buono sai? Sento che fa bene anche a chi si ferma ad osservare. E’ un punto di contatto molto importante.

Cosa ti ispira?

A volte è un dettaglio a restarmi in mente, a volte è una fotografia o la traccia di un sogno. Nei miei disegni non ci sono abbracci, non ci sono sorrisi, mondi ideali o cieli tersi. Solo scarti, spazzatura, roba che non funziona più come dovrebbe e che dal basso guarda enigmatica il vostro fastidio. Raccolgo quello che fa male e ve lo restituisco con gentilezza. Non prendetemi troppo sul serio non abbiate paura dei miei piccoli demoni di provincia. Sono anche i vostri.

Come dai vita alle tue opere?

Metto su un disco ad alto volume, di quelli che scavano dentro, che ti portano dove decidono loro o più semplicemente dove capita.

Poi preparo il tavolo, colori e pennelli puliti, ben ordinati e dei fogli bianchi. Tre è il numero perfetto, non dipingo mai un pezzo alla volta perché equivarrebbe a una condanna a morte. Mentre sono concentrata su un disegno gli altri asciugano, visione e materiali si sedimentano ed io ho il tempo di vederli in prospettiva. Tre, cinque, sette adoro i numeri primi, possono diventare molte cose o essere semplicemente se stessi.

Quando dipingo il caso gioca un ruolo fondamentale. Non controllo, lascio scorrere. Creo, distruggo, accantono poi riprendo e man mano aggiungo dettagli, non in modo meccanico o decorativo ma radicale e talvolta distruttivo. Osare, salvare, arricchire, attendere, distruggere, riciclare. Sono momenti decisivi, mai prevedibili.

La ricerca insegue un filo di pensieri non un progetto strutturato. Non c’è un inizio non una fine, ma un record di avvenimenti psichici che si fissano sulla carta, in forma di segni, immagini e parole, con l’intento voyeuristico di farsi guardare più che di farsi capire. I materiali usati sono perlopiù di recupero, prevalgono supporti piccoli, maneggevoli e di facile utilizzo, disponibili ad essere stravolti senza rispetto ma con tanto amore.

Non riesco a buttar via quasi niente riciclo l’impensabile, sono ossessionata dal quadrato e dal piccolo formato. Ho una dipendenza brutale dalla musica rock e dei vicini molto pazienti.
Mulino Pardini: un ecomostro abbandonato nella piana di Lucca in attesa della sua astronave.

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