Cosa ti spinge a creare?
Uno: perché ho bisogno di spiegarmi – e forse anche spiegare per vie indirette agli altri – alcune percezioni. E ho la necessità di farlo prendendo una strada che sfugga alla razionalità pura. In questo l’ossimoro si presta perché, per sua natura, annoda due opposti e li mette in risonanza per conflagrare due idee lontane generando significati nuovi. In sostanza: le immagini, per me, sono l’uscita di sicurezza dalle situazioni in cui il mio lato iper analitico tende a prendere il sopravvento, pretendendo di inchiodare, sezionare e catalogare qualsiasi esperienza in modalità cartesiana.
Due: per far convivere in modo tollerabile l’alto con il basso, il serio con lo humor, i vivi con i morti. È un modo molto dispendioso – in termini di tempo e scoramento – di gestire la cosa, ma per il momento non ho trovato strade alternative, almeno non praticabili sul lungo periodo.
Tre: per dare spazio ad un ripetuto atto di fiducia [direi fede, non fosse che il termine è per me problematico su vari fronti] che altrimenti non avrebbe spazio. Fiducia che quando ho a che fare con le persone è una conquista che, per ragioni strettamente biografiche, richiede fiumi di tempo, oceani di pazienza e – spesso – secca presto per incomprensioni. Fiducia che invece, quando si tratta di originare immagini, straripa da tutte le parti. E si ritorna all’ossimoro: «tendono alla chiarità le cose oscure».
Cosa ti ispira?
Ricordi passati e futuri, incontri non sempre avvenuti, parole trovate per caso.
Come dai vita alle tue opere?
Lavoro principalmente con china, inchiostri, matite e acquerello su carta 100% cotone. L’acquerello è una tecnica da pessimisti. Si lavora in negativo, dato che il punto di massima luce coincide con il bianco intoccato della carta. Quindi qualsiasi gesto, fosse anche per una singola velatura di colore, crea un abbassamento di luce, cioè un approssimarsi al buio. C’è poi il fatto che richieda velocità di esecuzione – specialmente nelle stagioni calde, quando letteralmente tutto evapora tra le mani e, al contempo, non permetta errori. La possibilità di recuperare un errore esteso è praticamente inesistente: si fa prima a imprecare, bruciare il foglio e poi imprecare di nuovo. Questo porta a mettere in conto [e nel costo] una certa percentuale inevitabile di insuccesso.
Sulla tecnica ho sempre cercato di investire, sia in termini di tempo, sia per quanto riguarda la scelta dei materiali. Quando la tecnica [intesa come insieme di gesti e conoscenze necessari e spogli: senza fronzoli, balletti e riverenze] è veramente assimilata diventa inconscia e tutta l’attenzione può concentrarsi sui contenuti. Detto meglio e più chiaramente: se non devi pensare a come muovere le mani – quello che nasce attraverso le mani è più probabile sia vitale e arrivi a comunicare quel che può.
Nel tempo la mia palette è cambiata e si è definita: un numero limitato di colori, alcuni toni che si chiamano l’un l’altro e che al momento mi suonano giusti.
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